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Durante la guerra mondiale 2, la divisione di Tom era catturata dall’esercito italiano e tutti i soldati erano portati in Italia. Li avevano fatti sfilare per le strade, facendo del loro meglio per umiliarli. Mentre passavano per le strade, la gente li scherniva, li copriva di sputi e sfogava su di loro rabbia e risentimento.
Improvvisamente, dalla folla canzonatoria «è uscita una bambina, mi ha messo in mano una pesca ed è corsa via prima che potessi ringraziarla». E Tom continuò: «Non ho mai mangiato una pesca così buona».
Tom aveva oltre settant’anni, ma gli occhi gli brillavano mentre raccontava la storia di quella bambina italiana che era stata gentile con lui in un periodo di odio profondo e d’inimicizia tra due paesi in guerra. Nel suo momento di vergogna e disperazione, una bambina senza nome aveva sfidato la pressione sociale per fare un semplice regalo di sincera compassione. Aveva ignorato il suo stato di soldato di un paese straniero e l’aveva visto come un essere umano ferito e bisognoso di un segno di dolcezza. Il ricordo di quella pesca gli era rimasto in mente nei duri anni successivi, mentre la guerra volgeva al termine, e ancora in seguito ogni volta che aveva bisogno della forza per aggrapparsi alla speranza, lasciarsi indietro la pena e il dolore della guerra e iniziare una vita nuova.
Probabilmente lei non aveva dato molto peso al suo gesto; dopotutto era «soltanto» una pesca. Probabilmente non si era mai sognata che lui facesse tesoro della sua benevolenza per il resto della vita; né che la storia sarebbe stata raccontata in un documentario che probabilmente ha ispirato altri a raccontare la storia.
Dovremmo quindi adoperarci per la pace condividendo «pesche» d’amore e misericordia, anche quando è rischioso o anticonvenzionale, perché varrà veramente la pena di seminare quel «frutto»: le varie anime rinvigorite, i cuori tristi rallegrati, le persone sole amate.
Story adapted from Activated magazine; used by permission.
Photo credits: Image 1: National Geographic; used under Fair Use guidelines. Image 2: Patrick via Flickr; used under Creative Commons-Attribution-Non Commercial license. Image 3: Shkumben Saneja via Flickr; used under Creative Commons-Attribution 2.0 Generic license.
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Edmond Sichrovsky
Dovrebbe essere facile, pensai, mentre mi preparavo ad andare alle superiori. Non mi aspettavo di avere problemi a fare amicizia o interagire con i miei compagni di classe. Purtroppo la mia sicurezza fu delusa il primo giorno di scuola, quando feci conoscenza con il ragazzo seduto vicino a me nell’aula. Sean era alto più o meno come me, ma pesava quasi il doppio. Studiava in modo sbadato, non si preparava mai per i compiti in classe, gridava e insultava studenti e insegnanti. Si vantava continuamente dei videogiochi violenti che faceva e la loro influenza si vedeva chiaramente nel suo comportamento arrabbiato e distruttivo. Ben presto cominciai a desiderare di non stare seduto di fianco a lui.
Passarono le settimane e Sean sembrava peggiorare continuamente. Era sempre insufficiente, litigava con gli altri ragazzi e non aveva amici. Facevo del mio meglio per essere cortese, ma mantenevo le distanze.
Un giorno, all’ora di pranzo, l’unico posto libero in mensa era vicino a Sean e mi ci sono seduto con riluttanza. Abbiamo cominciato a parlare e durante quella breve conversazione ho scoperto che suo padre era morto quando lui era piccolo e sua madre faceva il turno di notte. Di conseguenza lui era a casa da solo quasi tutte le sere e passava del tempo con lei solo nei fine settimana. Provai vergogna per il mio atteggiamento critico e decisi di avvicinarmi un po’ a lui, nonostante non fossi molto incline a farlo. All’inizio i miei tentativi furono accolti con scherno e rifiuti. Scoprii che Sean era stato oggetto di bullismo in passato e sembrava che per reazione avesse sviluppato una facciata dura e insensibile. Era difficile sceglierlo quando facevamo le squadre ed era penoso cercare di fare amicizia con lui quando tutti i miei sforzi erano accolti con osservazioni beffarde. Spesso avevo la tentazione di arrabbiarmi con lui e mi chiedevo se ne valesse la pena. Con il passare dei mesi, però, Sean cominciò a diventare più amichevole. Poi, una mattina, più di quattro mesi dopo quella prima conversazione nella mensa, Sean insistette per sedersi con me per un’attività di classe. Ne fui colpito. «Dici sempre che non vuoi più vedermi», gli dissi. «Non è vero!» replicò con un sorriso. «Sei il mio unico amico, l’unica persona cui importa di me. Voglio che restiamo sempre amici».
Quel giorno non solo feci un’amicizia che continua ancora adesso, ma scopri anche una preziosa verità: in qualsiasi modo una persona agisca, si comporti o sembri essere, tutti vogliono e hanno bisogno di amore e approvazione. Sotto la superficie dura della facciata di una persona c’è spesso un fiore in attesa di germogliare. Le parole e i gesti gentili sono per il cuore umano ciò che il sole è per i fiori. Possono volerci giorni, settimane, a volte perfino mesi e anni perché i nostri sforzi siano ricompensati da risultati, ma un giorno quella persona sboccerà.
Testo adattato dalla rivista Contatto. Utilizzato col permesso.
Photo credits: Image 1: Kirimatsu via DeviantArt.com; used under CC license. Image 2: Flamespeedy via DeviantArt.com; used under CC-NC license. Image 3: Heximer via DeviantArt.com; used under CC license.
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